NOI CI VOGLIAMO SPOSARE!!

 

50 minuti al telefono, chiaramente in viva voce, lui con lei, loro con me. Tra ipotesi di altre date, ferie blindate, ristorante che non garantisce niente, in attesa di nuovi decreti, ci salutiamo con la promessa che io quel giorno mi tengo libero per il matrimonio. Il 4 luglio. Una data che racchiude tanti pensieri, tante emozioni, tanto impegno. Giovani che hanno imparato l’amore vivendo insieme e dando forma a parole grandi con scelte ricche di discussioni e piccole quotidiane rinunce. Si arriva alla scelta di sposarsi, gravidi di esperienze d’amore, messe alla prova della fedeltà e dalla disponibilità a dare spazio ad altri prima di sé. Si portano in questa decisione storie di famiglie che si legano e s’intrecciano nella storia di due giovani. Si dischiude in questa scelta, la vita di bambi che troveranno un papà e una mamma, che prima erano anche marito e moglie. Decidere di sposarsi in una bella chiesa, con un amico prete, porta con sé tanti volti, tante persone, tanti gesti d’amore messi alla prova dei fatti, sogni di paternità e maternità che aprono orizzonti nuovi e tutti da esplorare e realizzare. Mettere a rischio la data di un matrimonio, mette in discussione tutto questo. Due giovani amici che fino all’ultimo giorno utile per decidere ci credono, mi da’ gioia e mi fa ben sperare! Loro ci credono! Ci credono che cambierà tutto, ma non il loro amore. Ci credono che la benedizione del loro matrimonio è una benedizione per le loro famiglie e i loro amici. Ci credono che in due daranno vita ad un nuovo popolo che abiterà questo terzo millennio, post pandemia. Ci credono che Dio, ci sta accanto…

 

Questo virus non fermerà la voglia di Vita che scorre nel cuore di giovani appena affacciati alle scelte di vita grande! Forse è questo il segreto perché i giovani non si ammalano: loro respirano e hanno nel cuore la voglia di Futuro!

 

DON HAI QUALCOSA DA FARMI FARE?

 

“Non ci sto più dentro!” In un bel bergamasco che riempie di poche parole le sue lunghe giornate in cantiere. “Quando lavoravo, mi sentivo schiavo delle ore sui punteggi, adesso sono schiavo del divano e della televisione! …don fan fa’ ergot!!” Così, da un paio di giorni, nel magazzino dell’oratorio gratta e vernicia i serramenti in legno della casa parrocchiale. Di tanto in tanto gli porto una bibita e lui mi risponde con un sorriso impolverato di sudore e fatica. E tanta soddisfazione! “Finalmente mi sento LIBERO! Libero di fare qualcosa che mi rende utile!” (…sempre nel suo bergamasco masticato).

 

Già! la Libertà che oggi celebriamo come regalo nazionale, in una situazione di semi libertà controllata. La Libertà di fare qualcosa che ci rende utili. Possibilità che hanno riconquistato giovani del secolo scorso, con la passione e la vita. Libertà che ci è donata sin dalla nascita per essere capaci di fare qualcosa di bello e utile anche agli altri. Una Libertà che ci fa sentire responsabili di altri accanto a noi, che hanno bisogno di noi. Sembra strano, ma in questi giorni di clausura forzata, ho avuto la sensazione di fare tante cose belle che hanno fatto star bene tante persone. Vuoi vedere che la Libertà non ha a che fare con porte o cancelli chiusi, mascherine o distanze sociali. Che sia questione di creatività e altruismo?

 

…certamente Dono ...ricevuto e da consegnare…

 

HO UN REGALO PER DON ALFIO

 

“Sono io!” E scendo le scale con un sospetto. “Salve! Sono della gelateria, le regalo un kg del nostro gelato artigianale. Glielo manda Carlo, mi ha detto che è suo amico. Comunque c’è il biglietto. Scappo che devo andare da altri tre.” Rimango solo con una scatola che velocemente mi raffredda il palmo della mano. Apro la busta e leggo il biglietto. “Un dolce pensiero da lontano per sentirci sempre vicini. Ti abbiamo pensato e seguito via social in queste settimane. Un abbraccione! Carlo e Stefania con Nicola, Elia e Luca.”

 

Ma dai!! Carlo, amico d’infanzia, che lavora alla Banca Centrale Europea, vive a Francoforte con Stefania e tre bimbi, mi manda un kg di gelato artigianale! Ma non ci credo! In tre secondi scorrono immagini di partite a calcio all’oratorio, giochi da cortile con gitani in Romania, discussioni su teologia e sociologia, il matrimonio in una chiesa del romanico leminese…il film di una amicizia che dura da una vita, nella scatola di un kg di gelato. La giornata si è subito riempita di una gioia leggera e sottile. Sensazione di essere seguito a distanza da chi ti vuole bene. Ricordi di vita traboccante di entusiasmo e ricerca di senso. La forza dell’amicizia che regge il tempo e lo spazio. Una bella giornata! Dentro un gesto che parte da lontano, quando ero piccolo, passa da Francoforte, sfiora Bergamo, amata e martoriata, per arrivare al mio cuore nel cortile dell’oratorio. Con un gelato, che per la prima volta, scalda, invece di rinfrescare. Effetti collaterali del Corona Virus 2.0.

 

Un pensiero a Carlo e Stefy, e una preghiera al buon Dio che ha inventato l’amicizia e l’ha messa nei polmoni e nel cuore delle persone. Che sia il vaccino che tutti stiamo cercando?

 

MAMMA, NON SI SUONA PIÙ DAI TERRAZZI?

 

“Se vuoi possiamo suonare noi?” “Ok! Vado a prendere il flauto!” “Dai, suona l’Inno d’Italia come messaggio di unione e solidarietà.” “…ma, io non lo so suonare…”  “cosa sai suonare?”  “Va bene Jingle bells?” “…ok! Va bene ugualmente! Auguriamo a tutti Buon Natale!”

 

Raccontava con un sorriso Lucia di suo figlio Davide, che sta concludendo la quinta elementare e tra pochi mesi andrà alle medie, aggiungendo, con un po’ di preoccupazione, “…speriamo se la cavi, l’anno prossimo!” E, poi, mi allunga un foglietto scritto in matita. “È di Michele, sai che domenica avremmo dovuto fare la sua Prima Comunione…” Leggo: “Caro Gesù, oggi sarebbe stato il giorno della mia Prima Comunione, saresti entrato nel mio cuoricino e mi avresti inondato di gioia che solo tu mi puoi dare: so che devo ancora aspettare, ma ti prometto che mi farò trovare pronto il giorno che, finalmente, ti potrò ricevere.” Mi si gonfiano gli occhi e quasi non riesco a leggere la sua firma. I bambini. Perché non li chiamiamo EROI anche loro? In fondo stanno facendo la loro parte con coraggio e tenacia. Si adeguano a questa restrizione, senza grossi capricci o legittime pretese. Vivono i pochi metri quadrati consentiti con diligenza e fantasia. Sacrificano relazioni vitali con i pari, senza troppe questioni. Tengono in ordine le scarpette da calcio o le ginocchiere per quando si tornerà ad allenarsi. E imparano con curiosa fatica la nuova videodidattica on line. Non dev’essere facile vivere da bambino il tempo della pandemia. Ascoltano in silenzio le preoccupazioni di noi grandi. Ci aiutano con la loro schiettezza a dare risposte di vita vera. Ci distraggono con la loro fantasia portandoci lontano da sofferenza e morte.

 

Gia! Come gli eroi dei fumetti.

 

E GLI ALTRI SCIENZIATI?

 

Li chiamavamo cervelli in fuga. Oppure ricercatori. Con quel nome da avventurieri che in verità, nasconde, ore e ore in una stanza davanti a provette e microscopi. E stipendi normali… oggi li chiamiamo scienziati. E aspettiamo da loro numeri, previsioni, novità. Attesi da politici delle istituzioni che, sui report degli scienziati, elaborano possibili scenari futuri. Sempre in aggiornamento. E noi, dietro uno schermo piatto, in balia di parole, numeri, scenari. Ma degli altri scienziati se ne parla poco. Quelli che usano il silenzio come strategia. La parola come terapia. La prossimità come scenario futuribile. Sono psicologi, terapeuti, counselor, educatori. Anche loro in prima linea. Con le scienze imparate e applicate in quella che chiamano la relazione d’aiuto. Anche loro combattono in questa epidemia. “C’è bisogno di aiutare le persone a rielaborare il lutto.” “Raccogliamo racconti di angoscia e sensi di colpa.” “Sentiamo ansie e dolori legati alla morte.” “Ci aiutino anche i sacerdoti, perché questi narrati sconfinano spesso nella dimensione della spiritualità.” Diceva una voce che racconta cose nuove nel tempo delle statistiche aggiornate ogni ora e del mantra restate a casa. Mi sono sentito chiamato alle armi! Io, che questa guerra la combatto dietro le quinte, nell’ospedale da campo di Papa Francesco. Chiamato alla prima linea. Con la forza di parole e segni, che so essere efficaci contro questo nemico che inchioda anche il cuore al senso di colpa, le emozioni all’ansia permanente. Conosco la forza sanatrice della parola croce, compimento, consegna. Ho moltiplicato in mille riti la sensazione della speranza e della fiducia, come certezza emotiva che rassicura e rigenera energie vitali. Ho provato sulla mia pelle la complicità della preghiera, come terapia che produce solidarietà emotiva tra pari e comunione spirituale con il divino. Abbiamo le nostre strategie per combattere questa pandemia. Si ascoltino anche gli scienziati dell’anima. C’è da salvare l’umano, non solo la salute.

 

AMA GLI ALTRI COME TE STESSO

 

“Ma non hai paura che ti fermino?” “…mi conoscono tutti qui! …e poi non so dove stare…”

 

Si presenta al cancello chiuso dell’oratorio. Era da un po’ che non lo vedevo, abituato alla sua visita quasi settimanale. Evaristo è uno dei tanti che ha imparato a sopravvivere senza un vita piena di cosa da fare. Non ha lavoro. Non ha famiglia. Non ha casa. Non ha un passato. Tanto meno un futuro. Oggi ho tempo da dedicargli. Scendo e mi fermo con lui, due chiacchere mentre le mascherine si adagiano sul mento. Scivola il discorso su Dio e questi giorni cupi. “Ho letto la Bibbia, don Alfio, Dio castigava e puniva. Comunque ho capito che oggi Dio non c’entra niente. Mi piacerebbe leggere anche il Corano, così per sentire come la pensano.” Aggiungo qualche parola sul Dio di Israele e dei musulmani e, poi, concludo affermando che la Bibbia finisce con una regola nuova: Ama gli altri come te stesso. E lui: “È vero! …ma io non ci sono mai riuscito a rispettare questa regola. Ho sempre amato troppo gli altri, più di me stesso.” Spiazzato. Accenno solo un sorriso per non tradire il mio imbarazzo. Io che ogni giorno faccio fatica a mettere gli altri prima di me. E ho tutto. Passato. Presente. Futuro. Forse è così che va la vita…se metti gli altri prima di te, perdi tutto. E finalmente sei libero. Libero di cercare e trovare Dio. Quello, che non c’entra niente.

 

Allungo la mano. Ci salutiamo. “Comunque io preferisco i romanzi!” aggiunge Evaristo con un sorriso sdentato. Conclusione di una lezione di teologia sulla Pandemia.

 

DUE SCAMBI A PING PONG?

 

Ci abbiamo provato a tenere le distanze. Ma abbiamo perso. Sì, con il ping pong era facile. Tu di là io di qua. Un po’ meno con il calcetto…facciamo uno contro uno…ma poi scatta quell’agonismo tutto maschile che fa di ogni partita la finale di champions! Avevamo apparecchiato tenendoci a distanza, uno per tavolo, ma sul far della colomba, ci siamo ritrovati gomito a gomito a parlare di Atalanta, costi del telefonino, wifi instabile e Africa… abbiamo cercato di rendere la Pasqua un giorno diverso dagli altri, scendendo dall’appartamento per stare in oratorio un paio d’orette insieme e in modo festoso. Le pizze rigorosamente a domicilio e le posate usa e getta. Ma è l’oratorio! L’oratorio che per una sera, poche ore, riprende luce e accende ricordi di cene nel cortile su tavolate che ogni volta si allungano di nuovi posti per chi non era atteso e si è aggiunto. I giochi che sono per forza da fare con gli altri, a ricordare i bimbi dell’asilo con la paletta in mano e il naso al livello dello spigolo del tavolo da ping pong. Le sedie più altre attorno al tavolo da bar a proiettare l’ologramma di nonni con occhiali sulla punta del naso a sfogliare ancora una volta il L’eco. Una serata, poche ora, proiettati in un’altra dimensione, un altro tempo. Scene di una vita che sembrano tanto lontane, ma che è bastato l’interruttore della luce su ON, per riaccenderle davanti agli occhi e nel cuore. E a rendere risorto l’oratorio per un paio di ore, con cinque ragazzi africani, un prete, un padre di famiglia e sua moglie.

 

MASCHERINE…SMILE!

 

Anche stamattina un po’ assonnato, nell’andare in chiesina per la messa, ho dimenticato ancora una volta la mascherina. Sono pochi passi, è vero, ma proprio non mi viene ancora di indossalra.Tienila almeno in tasca! Mi dico. Sarà che non è sotto gli occhi, vicino alla porta d’uscita, sarà che è piccolina e si nasconde dietro quotidiani o libri ammucchiati sul davanzale, sta di fatto che non mi viene di cercarla. Sarà che quando la uso, mi si appannano sempre gli occhiali, la barba la fa scivolare sotto il mento mentre parlo, e il gancino non prende mai la forma del mio naso. Mah! Sarà che mi manca il fiato e mi sembra di essere un malato. Sta di fatto che non riesco ad abituarmi a questo nuovo e necessario capo d’abbigliamento. La verità è che non mi piace indossarla! Mi sembra di uscire in un paese straniero, che non è la mia casa, la mia terra. Mi sembra di temere d’incontrare qualcuno che ha paura di me. Mi sembra di dover difendermi da qualcuno che potrebbe farmi del male. Sembra di lanciare messaggi di distanza e di pericolo, di sfiducia e di timore. Mi dà la sensazione di nascondermi. Anzi, di nascondere qualcosa di bello di me. Imbrigliato, dietro un telo leggero con degli elastici, come un pulcino dentro una scatola chiusa, o un canarino dentro una gabbia oscurata da un panno, il mio sorriso è sepolto dietro sta cosa. Non si accende più il mio sorriso a raccontare più delle mie parole. Non riesco a renderlo il faro luminoso che riempie il mio volto di messaggi e segni lucenti senza dover parlare. Non mi precede più, a preparare l’incontro con chi sta camminando verso di me. Ecco il sorriso sequestrato, è l’ennesima fatica in questa pandemia. Sto imparando a guardare negli occhi e a lasciarmi guardare. Ma non è facile, si rischia di scivolare nell’anima di chi incontri o di lasciarlo entrare nella tua anima. Dagli occhi. Ecco! Il sorriso come un fedele guardiano, aiutava anche a trattenere qualcuno sull’uscio del cuore, prima che entri nel tuo cuore senza permesso…

 

CHE GIOIA PRANZARE INSIEME!

Ieri ho avuto la gioia di pranzare con un papà, una mamma e tre figlie! In sei attorno ad una tavola nel giardino con il confine sul bosco! Che gioia! Passarsi l’olio, la carne, versare dell’acqua nel bicchiere di chi ti sta accanto, gustare del vino e decantarne qualità e provenienza. Che gioia! Ascoltare avventura di famiglia con il gallo ruspante del vicino, o consigliarsi film per concludere insieme la giornata sul divano. E poi non alzarsi più dalla sedia! Una, due, tre ore a gustare e parlare. L’insalata mista, il vitel tonnato, la carne alla griglia, la polenta dimenticata, e poi le fragole, il dolce con tutto il suo racconto di otto mani intervenute per realizzarlo, sotto la regia attenta e divertita della mamma. Che gioia mangiare insieme! Me ne ero quasi dimenticato…io, che in queste lunghe settimane, ho ripreso il gusto di cucinare e di fare la spesa, aprire il frigor e pensare ad un pasto, sistemare ortaggi e frutta tra la credenza e cesti di vimini. Pasteggiare da solo con il parlato ronzante della tv, il telefonino a scattare qualche selfie con la forchetta in mano, o il pc a buzzare notifiche, toglie ogni gioia. Resta il piacere, il gusto del buon cibo, ma la gioia è un’altra cosa! Si deve essere almeno in due. Perché la gioia sgorga nella condivisione. E in più si è, più cresce! Racconti ad un altro il gusto piacevole e ti accorgi che lo intuisce nello sguardo, prima che dalle parole. Ascolti il narrato di vita e ti senti parte della vita stupenda di chi ti sta di fronte. La gioia ha a che fare con un’intimità complice tra due persone che accende la voglia di vivere con altri. Ti senti accolto e capace di accogliere. Sensazione che ti lascia apprezzato e meravigliato. La copertina di un’esperienza di gioia che si dischiude in pagine di vita. Che gioia avere amici che ti invitano a tavola in casa loro! Una Gioia che non si riesce a raccontare! …è solo da vivere e mostrare con la vita…

GERMOGLI DI PASQUA!

 

All’inizio della Quaresima ho spesso regalato ai bambini del catechismo un vasetto con del terriccio e qualche semino, con l’augurio di prendersene cura durante i quaranta giorni di cammino, certo che i semi avrebbero germogliato per Pasqua. Quest’anno non ho avuto l’occasione, e il vasetto è rimasto nascosto dietro il libri sulla scrivania. In vista solo le primule della giornata della vita celebrata il 2 febbraio. Svaniti i fiorellini sono rimaste le foglie che, velocemente, sono appassite. La quarantena coincisa con la quaresima ha fatto il resto. Solo domenica delle Palme, sistemando la scrivania dell’ufficio, mi si è presentato il piccolo vasetto con terra indurita e i semini a parte. Con un po’ di rimorso, ho messo dell’acqua e ho interrato i semini, prendendomene cura ogni giorno.  Sabato sera, dopo la veglia della luce, rientrando a casa ecco spuntare dalla terra scura piccoli germogli che mi hanno gonfiato gli occhi di commozione. I quei piccoli germogli ho sentito il saluto vivace di tanti bambini e genitori, sequestrato in questa Pasqua, ma sempre atteso a fine messa, Buona Pasqua don! affiorare da quel vasetto pieno di vita! Li ho visti lì dentro i bambini del catechismo e le loro famiglie, stringersi attorno, terminata le messa sul far del canto finale, regalarmi sorrisi, baci e auguri. Erano lì, in quei semini germogliati in pochi giorni – che solitamente chiedono alcune settimane – a dirmi che non sono solo, nemmeno in questo giorno di Pasqua! Gonfia il cuore di gioia e gli occhi di lacrime, la sensazione della vita che genera altra vita. Pasqua nella mia comunità che non mi lascia solo, Pasqua in un germoglio che fa ben sperare per i giorni a venire.

 

33 PASSI

 

Trentatré passi è la distanza da casa mia alla chiesina. Ogni mattina mi reco per la messa e le lodi. Trentatré passi che facevo d’un fiato, spesso in ritardo, oppure contro il freddo. Trentatré passi fatti di silenzio e pochi pensieri.

 

Ancora trentatré passi, ma dilatati in minuti che diventano quasi ore. Si apre l’anta di una finestra e il saluto del buon giorno si arricchisce di commenti. Passa un auto e, al cenno di saluto con la mano, la sosta a bordo strada trabocca di racconti. Esce di casa con la mascherina e la borsa per la spesa e, senza fretta, ci si racconta di storie di famiglia. Trentatré passi, che in questi giorni, si gonfiano di parole e racconti con persone che, in quel breve tratto di asfalto, diventano una cartella di word sempre aggiornata da nuovi file di vita quotidiana. La stranezza di questo tempo in sospensione coatta. Già! ...il tempo... Il tempo, forse, finalmente, è nelle nostre mani! Si può parlare con qualcuno dalla finestre della camera. Si può sostare con l’auto per salutare l’amico. Si può attendere di entrare in un negozio, consumando parole e minuti con chi incrocia i nostri occhi. Si dice “…il tempo è denaro!” Può essere che in questo Sabato Santo, giorno dell’attesa, del tempo perso ad aspettare qualcosa –Qualcuno-, ci sia donata la sensazione che il tempo è nelle nostre mani, occasione per scaldare relazioni di Vita, non solo e non sempre denaro.

 

Trentatré passi dove ogni giorno risorgo a nuova Vita, nella vita degli altri.

 

…NEL VENERDÌ SANTO.

 

Ci ha lasciati nel Venerdì Santo, lei che di venerdì santi ne ha preparati molti accanto a sacerdoti e parroci della sua comunità. Lei che non perdeva una preghiera, un appuntamento in chiesa nel triduo Pasquale e ogni festa. Lei che si curava della casa del prete e della chiesa di tutti. Lei che diceva ai suoi figli di andare a messa. Lei che si preoccupava dei suoi nipoti perché non andavano a messa. Si è addormentata nel silenzio di una casa, nella penombra di un sole che quasi dà fastidio in questi giorni abitati dalla morte. Quanti pranzi, quanti pasti per preti, familiari, parenti, vicini preparati con semplicità e generosità e un sorriso con nascondeva sempre la paura di non fare troppo e di non fare bene. Se n'è andata in un venerdì, il venerdì santo, in cui tutti pensano all'unico Morto e a lei, nemmeno il dono di una chiesa piena di persone riconoscenti, di un altare con sacerdoti grati per il suo servizio il suo esempio di vita. Se ne è andata in un venerdì santo nel silenzio inghiottito da numeri che la fanno essere una dei tanti di questa pandemia. Nel nostro cuore scolpito il suo sorriso dolce, i suoi occhi a forma di mezzaluna, mani screpolate dal servizio, voce roca piena di simpatia fatta di battute inopportune, ma sempre ingenue. Sotto la tua croce, accanto a Maria e ai pochi rimasti, c'è anche lei, ti guarda morire, morendo con te. 

 

Grazie per il dono di averla amata di essere stati da lei amati. 

 


 

 

 

OGGI È IL GIOVEDÌ SANTO

 

A quest’ora avrei voluto essere in Duomo a Bergamo con tanti altri confratelli preti a celebrate la messa crismale nel ricordo delle nostre promesse insieme al Vescovo. È un appuntamento che aspetto sempre con gioia. È bello rivedersi e incrociare occhi e sorrisi con tanti amici. Scambi di auguri e strette di mano. Aspetto sempre con attenzione le parole del Vescovo e del Vicario, cariche di patos e affetto, con tanta sapienza evangelica. Spesso mi capita di attingere dai loro pensieri la mia omelia di Pasqua… Il Duomo, con centinaia di preti vestiti di bianco, è un’immagine splendida! …pensieri di eternità…Poi un caffè in Città Alta e via!, nella preghiera per tre giorni con la tua comunità. Stamattina il telefono si è riempito, sin dalle prime ore, di messaggi da sacerdoti, in modo personale o nei gruppi, pieni di auguri e canti di lode. È stato bello trascorrere qualche minuto a leggere e rispondere. Almeno oggi altre parole e altri pensieri… sento il mio sacerdozio come un dono gravido di forte responsabilità. In questi 23 anni, essere prete, mi ha plasmato la vita. Ha orientato scelte e modi di fare. Ha educato pensieri e affetti. Ha allargato il cuore e la mente. Ha generato relazioni di amicizia e cura. È un dono. Che mi ha cambiato la vita. È una responsabilità che mi chiede di cambiare la vita. Prete. Ho ricevuto tanto affetto e gratitudine da persone diventate amiche e compagni di viaggio importanti. Prete. Ho orientato la mia vita cercando di dare il mio contributo alla gioia della vita di altri. Prete. Sono entrato in punta di piedi nel dolore di persone e a tuffo nella gioia di famiglie. Prete. Ho abitato luoghi che non conoscevo incontrando persone che mi hanno amato come un fratello di famiglia. Prete. Ho imparato parole che non conoscevo e che hanno avuto l’eco dell’Eterno. Prete. Ho sognato, viaggiato, progettato, giocato, cantato, ballato con giovani e bambini. Prete. Ho imparato la bellezza del silenzio, della solitudine, della preghiera. Un dono gravido di responsabilità, che ogni giorno cerco di onorare con il mio sorriso alla Vita.

 

QUANDO VIENI A TROVARMI?

 

Quando vieni a trovarmi?” Inizia e finisce sempre così la telefonata con Basilio, il mio vecchio amico sagrista di Trabuchello, la parrocchia tra i monti che ho abitato per dieci anni. “Prima non avevo mai voglia di uscire di casa, adesso che non si può, invento ogni scusa per fare due passi.” Mi confida nel suo bergamasco pastoso e divertente. Un uomo semplice e fiero, montanaro orgoglioso e generoso. Nella sua vita ha amato il lavoro, la famiglia, e la sua comunità, con questo ordine. Prima il dovere, poi il cuore, quindi, le relazioni. È questo che si impara tra i monti. “Mi manca non andare ad aprire la chiesa…e ogni tanto faccio finta che devo uscire per aprire il portone, anche se nessuno ci entra per tutto il giorno.” Aprire la porta di una chiesa come a dire di un invito e di un’attesa. C’è un Dio che ci invita e ci attende. Non segna chi risponde e chi arriva, semplicemente invita e attende. Un Dio paziente e speranzoso. Si impara questo in montagna. Ad attendere e a sperare. Un po’ come queste settimane di sospensione. Anche qui in città, abbiamo imparato che è tempo di attendere e sperare. Invitando e aspettando. Già, come dice Basilio: “…quando vieni a trovarmi?!

 

C’È ANCHE IL DON?!

 

L’altra sera, grazie ad Alessandro, mi sono anch’io infilato in una chat dei ragazzi per una conferenza di gruppo. L’idea era di rivedere gli ado nella nostra serata di catechesi, così, per sentire come va. Più di un’ora in videochat! È stato davvero bello ritrovare il viso giovane dei ragazzi dell’oratorio, nelle loro camerette con i loro imbarazzi e la voglia di chiacchierare. Per un’ora intera abbiamo scherzato e sorriso. Ci siamo presi in giro e abbiamo ironizzato sui nostri modi di presentarci. Mi sono cullato dentro la loro leggerezza…ne avevo bisogno… sono giornate piene di racconti di sofferenza e dolore. Raccolgo confidenze ed emozioni che, in casa da solo, rimbalzano tra le pareti del mio cuore. Anche le telefonate sono spesso un racconto di situazione sofferte della nostra comunità. Ascoltare i ragazzi raccontarmi di bigliettini appiccicati alla scrivania durante l’interrogazione di matematica, sorridere davanti alle foto di qualche anno fa, parlare del pigiama rosa o della maglietta con il teschio, mi ha portato in una realtà che amo abitare, ma che ultimamente non ricordavo più. La leggerezza dei ragazzi, non ancora capaci di leggere con categorie e parole le emozioni sociali che stiamo attraversando, anche se il loro cuore trabocca di sensazioni nuove che agitano e disorientano, mi ha aiutato a rimettere i piedi nel mondo. Non c’è solo sofferenza e dolore, anche se sono le parole e i silenzi più forti che odo ogni giorno. Ci sono anche tanti desideri di futuro e di vita, voglia di giocare e scherzare, necessità di intrecciare relazioni in amicizie ancora da forgiare e maturare. I sorrisi degli adolescenti mi hanno dato uno sguardo nuovo sulle mie giornate troppo piene di responsabilità adulta. E poi a conclusione della chat, dopo la preghiera, Anna che chiede “settimana prossima c’è ancora il Don?”. Un tuffo nell’affetto spontaneo dei ragazzi, per riemergere con gli occhi gonfi di lacrime, trattenute a fatica e singhiozzate in un sorriso scomposto dentro una risposta tremolante “…certamente…ci sarò anch’io…ci rivediamo mercoledì…”

SEMBRA PROPRIO UN SUPEREROE!

 

Mamma il don Alfio con quel mantello rosso sembra proprio un SUPEREROE!

 

Messaggiava mamma Lisa dicendomi del sorriso pieno di meraviglia di Sofia al vedermi dalla finestra in strada con l’aspersorio, il secchiello dell’acqua benedetta e la casula rossa sopra la veste.

 

E’ stata un’altra bella domenica!!

 

Nei giorni scorsi convivevo con il pensiero triste di non vedere bambini e genitori entrare in chiesa con rametti di ulivo e giocherellare, cercando una sorta di compostezza improbabile, che crea quella bella confusione che rende sempre nuova e diversa dalle altre la Messa delle Palme. Allora mi è venuta l’idea di passare io stesso per le vie del paese a benedire ulivi o fiori chiedendo alle famiglie di affacciarsi ai terrazzi di casa. Che meraviglia!! È stata una giornata piena di sorrisi, malcelati da mascherine che ancora non abbiamo imparato ad indossare al meglio. Occhi lucidi e raggianti, parole gioiose e cariche di vita, sguardi come racconti interminabili. E tanta gratitudine! 128 i messaggi ricevuti in giornata! Un bel giro per il paese che mi ha ridato la dignità e la gioia del prete che sta con la sua gente. Ho ritrovato la mia comunità! Ho risentito la bellezza di vivere tra le persone. Ho percepito tanto affetto che scalda il cuore. Ora lo so, perché mi capita di dubitare ancora ogni tanto, in giorni santi, nelle mie preghiere avrò sempre una comunità che prega con me, che prega per me. Ieri il Sole ha illuminato la mia comunità e ha scaldato il mio cuore!

 

Giorni

 solo per pregare

 da solo.

  Componendo assemblee desiderate

 che ti lodino

 e ti ringrazino.

  Cammino

 stando nella mia stanza

 fermo.

 Cammino

 con i miei fratelli,

 a volte, un passo avanti,

 altre, un passo a fianco,

 oggi, un passo indietro.

  Seguendo

 ciò che ci fa essere

 umani

 nell’umanità dell’Essere.

 

SANTI, PIU’ CHE EROI

 

“Ciao don, scusa tanto se ti rispondo solo ora. Marzo è stato un mese intenso...mi sembrava di lavorare in missione! Tantissime ambulanze e tanti pazienti...solo che ora sono nella mia valle e con le persone che conosco...per fortuna da una settimana meno accessi in pronto soccorso e siamo tutti molto speranzosi!! Poi a casa c'è mio figlio Mael che mi aspetta sempre pieno di energia. Spero che impareremo tutti qualcosa di buono da questa triste esperienza…ad essere più empatici e solidali verso gli altri, dal migrante, al vicino di casa…E tu come stai? La tua famiglia? E la tua comunità? Speriamo di vederci presto quando tutto sarà passato...un abbraccio forte…”

 

Messaggiava ieri Daniela infermiera all’ospedale di San Giovanni Bianco. Rispondo che sto bene, ma è solo un modo per non aprire i pensieri e il cuore ad un racconto di sofferenza accolte e custodite, che nel silenzio della canonica alcuni giorni, sembrano ombre nere che si aggirano da una stanza all’altra. Sto bene!, e quasi mi sembra di mancarle di rispetto al suo star male nel lavoro schizofrenico che le sta consumando giornate. Sto bene!, e so che lei capisce tutto questo mio taciuto. Lei, che è stata in Gibuti, in Niger, a Mogadiscio e a Idomeni con Medici Senza Frontiera. Lei che porta dentro il dramma di popoli in perenne epidemia, profughi dalla nascita, in guerra da decenni. Lei che ha fatto del servizio a chi soffre l’unico modo per vivere la vita. Ecco, sapere che, se dovessi andare in ospedale, potrei incontrare persone come Daniela, mi rasserena cuore e mente. Emozioni e pensieri si sgonfiano, e le ombre buie svaniscono al pensiero che tanti amici e fratelli, da giorni ricoverati in ospedale, hanno accanto persone come Daniela. Facile chiamarli eroi, quasi a dire che hanno ricevuto doni non comuni, e che noi non siamo come loro. A me piace chiamarli donne e uomini pienamente umani. Perché è l’umanità maturata nel Dono di sé che ci rende come Lui. Ecco, forse santi, più che eroi…perché uomini e donne capaci di Amore divino.

 

…DOV’E’ FINITA L’AGENDA?

 

Spostavo libri da una sedia all’altra e mi è apparsa la mia agenda. Lavoro ancora con un’agenda cartacea, mi piace appuntare impegni, ma anche note personali, infilare volantini, annotare nomi di persone…nell’ipad, mi pare di non trovare più tracce di una vita ricca di piccole e grandi cosa fatte e da fare. È da un mese con non la apro! Le due pagine della settimana santa sono bianche. Scorro le settimana di gennaio e febbraio e ritrovo impegni e nomi che mi fanno sorridere. Faccio un salto nel mese di maggio e giugno e mi si aprono proiezioni di speranze: la messa delle prime comunioni…il cre… c’è ancora tanta Vita da scrivere! Sento che c’è vita da recuperare e da risognare. Come un mal di testa leggero che dura tutto il giorno, in questo tempo non riesco a trovare la concentrazione per pensare a progetti nel futuro immediato. Il programma del cre, con le sue gite, giochi e tornei, musiche da imparare, lo scorso anno era già imbastito; la messa della prima comunione già sognata nella corografia liturgica e nel ritiro in preparazione con i genitori. Questo tempo in standby, come lo screensaver del pc, sembra tenere tutto sulla stessa schermata. Subdola tentazione di smettere di pensare alle piccole e grandi cose da fare. Oggi prenderò un foglio bianco e inizierò ad imbastire le settimane di cre. Ho voglia di sognare e pensare alle cose belle che farò i prossimi mesi! Per ora ho segnato sull’agenda la data di inizio del cre e la festa finale. Iniziamo così!

 

il Blog del Don

CIAO DON!!!

Nel mio pellegrinare clandestino con la corona del rosario a fare da autodichiarazione, l’altro girono ho suonato il campanello della casa di alcuni amici. Ci siamo frequentati in oratorio e all’asilo, per quel bel regalo che sono i bambini, che costringono noi grandi ad annodare parole e pensieri attorno ai piccoli, per lievitare poi, in racconti di fatica del vivere nelle responsabilità quotidiane. Confidenze che aprono pertugi nei cuori. Occasioni per entrare nella vita altrui in quell’intimità nascosta di persone, fino all’anno scorso semplici conoscenti. Il misterioso dono dell’AMICIZIA. Così dal terrazzo un saluto a voce alta con poche parole, subito interrotte dalla voglia di avvicinarsi. Per prime scendono le bambine, con il papà a tenere frenata la loro corsa verso il cancello per rispetto a qualche divieto che sembra proibire anche questo. Poi la mamma ad accompagnarle sul viottolo del giardino perché la più piccola vuol far vedere il suo pigiama al don. E infine anche il papà, mano nella mano dell’altra bimba, ad avvicinare tutti al cancello con la scusa di mostrare i braccialetti fatti nel pomeriggio. In pochi minuti ci si ritrova a pochi metri di distanza, come all’oratorio, con la più piccola aggrappata al cancello quasi volesse saltarmi in braccio. Alcune battute, e tanti sorrisi con occhi lucidi. Poi il gesto di un dono “ecco alcune mascherine, ne ho prese molte, ti possono servire” e la mano ad allungarsi verso la mia con la forza di un abbraccio negato che trabocca di amicizia e voglia di stare insieme. A presto! …insieme in cucina attorno ad un piatto di pasta con le bambine piene di voglia di parlare e raccontare!

DAL CAMPANILE

ECCO LA MIA FAMIGLIA

 

Mi sono emozionato la prima volta!

 

È stato bello vedere dall’alto del campanile il mio paese distendersi come quando rimetti il tappeto sul pavimento. E poi il brulicare di vita negli appartamenti che, spesso, durante l’anno, vedevo animarsi solo alle prime luci della mattina e sul tardo pomeriggio, sul far della sera. Così in questi giorni salgo sul campanile della chiesa e prego. La mia voce amplificata, come i fiocchi di neve della prima nevicata, ad attirare sguardi curiosi alle finestre e, i più audaci, sul terrazzo. La bella sensazione di consegnare parole di speranza per piccoli e grandi e di essere amplificatore della Parola del Signore, mi ha gonfiato il petto di orgoglio e ossigeno di vita cristiana. Terminata la preghiera in pochi minuti, a guardar giù, nel vedere Francesco con la sorellina Martina e il papà con la mamma ad agitare la mano in segno di saluto, oppure il piccolo Luca affacciato alla finestra con la nonna, mi han tolto il respiro gonfiandolo di magone, un altro modo, pieno d’amore, di respirare a fatica… sistemando casse e microfoni, pensavo a quanti fili invisibili intrecciano la mia vita. Fili annodati dentro incontri di catechesi o messe celebrate ogni domenica, nodi coltivati da confidenze piene di sofferenza o racconti gioiosi di vita dei piccoli. Fili invisibili di sorgenti silenziose, quotidiane, comuni di un vivere insieme nello stesso paese, ascoltando, incontrando, parlando, sorridendo, pasteggiando insieme…storie di vita che trasformano un paesino in comunità. Già! …la mia comunità… che dall’alto del campanile mi è apparsa la famiglia più bella dove consumare la mia vita tra e amicizia e servizio. Un bel Dono di Dio a noi preti che, a volte, sembriamo persone sole senza casa…

 

BEPI E IL SUO CAGNOLINO

 

Suono il campanello dal cancello di casa. Una vocina tremante è schiacciata dall’abbaiare nervoso di un cagnolino che per primo si affaccia in cima alle scale. “Chi è?” distinguo nell’abbaiare del cane. “Sono don Alfio. Ci sono ancora!” Rispondo in un sorriso, quasi gridando, per superare la voce del cane. “Venga, venga  a bere un caffè!“…non si può Bepi, non si può…volevo solo vederti e farmi vedere. Come va?” E via un racconto di paure e ansie, di solitudine e silenzi. Anche il cagnolino ha smesso di abbaiare e, scodinzolando, ascolta il racconto della sua anziana padrona. Tremava mentre parlava dal terrazzo, raccontando della televisione che non aiuta a fare compagnia, ma solo ad aumentare la paura. Anche le campane e le sirene delle ambulanze ad agitare cuore e pensieri. La giornata sembra mai finire, tra divano e cucina. E la notte? …ore buie e lunghe dove si affollano pensieracci come pipistrelli pronti a finirti nei capelli…menomale che c’è il cagnolino! “A chi lo darò, non lo vuole nessuno”, alludendo ad una possibile morte solitaria in casa. Quasi avesse capito tutto, come fa spesso, ecco un balzo e la coda a scodinzolare, leccando la mano alla sua padrona. E poi di nuovo ad abbaiare con vivacità! “Non ci pensare! Vedi lui ti fa compagnia!”. Mi saluta con un sorriso e una richiesta “Passi ancora a trovarmi!”

 

Camminando verso l’oratorio, come in una schermata di Google Meet, si presentano i volti degli anziani che assisto durante l’anno visitandoli nelle loro case. Nemmeno la tecnologia è d’aiuto per loro. Solitudine amplificata dal silenzio delle relazioni quotidiane. Sono loro i veri Eroi che lottano questa guerra con la forza della Vita! La disfatta non è la morte, ma il desiderio di morire…

 

Ho trascorso il resto della giornata a chiamare e parlare con persone anziane che hanno bisogno di ossigeno, l’ossigeno di parole d'affetto e di cura. Parole di Vita, che tengono in vita.

 

FINALMENTE ALL'ARIA APERTA!

 

“Puoi uscire ma non stare troppo all’aria, hai i polmoni ancora deboli…” gli ha detto l’infermiera dopo la visita del primo mattino. La giornata era piena di sole e gli uccellini cinguettavano allegri nel giardino che dalla finestra spazia l’orizzonte. Pochi minuti, il tempo di mettersi la tuta e le scarpe e finalmente all’aperto! Me lo sono immaginato così il mio amico don Angelo che, dopo 17 giorni di ospedale, un terzo dei quali in terapia intensiva semicosciente, ieri quando, nel gruppo dei preti ci ha postato alcune foto di margherite e piante. Per la verità, foto di qualità scarsa…le radici di un tronco d’albero…un prato puntinato da margherite…la facciata della struttura che lo ospita…non certo foto da copertina, ma piene di vita e verità! La vita di chi, rinchiuso per giorni in un casco, misurava ogni respiro come la conquiste di una vetta. La vita di chi vedeva per giorni e notti persone senza volto, mascherate come astronauti a passeggio su un pianeta alieno con la sensazione di essere un extraterreste, uno di un altro pianeta. La vita di chi da giorni non vedeva il sole, ma tende azzurre e flebo biancastre. E poi la Verità. La verità che è bello camminare in un prato fiorito e raccontarlo agli amici. La Verità che la vita è un dono meraviglio da raccontare a tutti, tutti i giorni!

 

Ben tornato alla Vita don Angelo!

 

ANCHE IL PAPA COME ME

 

Pioveva anche.

 

Ieri quando il Papa è uscito nella Piazza di San Pietro completamente vuota, pioveva pure. Era già struggente l’immagine di papa Francesco che, camminando a fatica, e ansimando le prime frasi, si affacciava ad una piazza totalmente disabitata, che la pioggia sembrava una strategia cinematografica per strappare malinconia. Stonavano perfino i canti solenni in latino, che hanno sempre incorniciato liturgie oceaniche, dentro quella piazza dove le telecamere non sapevano cosa riprendere in un chiaro imbarazzo di regia. La benedizione solenne con il Papa in affanno a reggere l’ostensorio, evidenziata da campane suonate a festa, ridimensionata da un cielo improvvisamente plumbeo e dalle sirene di un’ambulanza beffarde che sembravano persino più forti delle centenarie campane della Basilica. Ultimo colpo thrilling di un nemico nella penombra deciso a ridurre l’evento alla tristezza. Eppure quel prete solo, davanti al suo sagrato vuoto, con in mano il Santissimo Sacramento a benedire la sua gente affacciata alle finestre mi ha regalato una gioia intima e profonda. In una frazione di secondo ho risentito le parole di don Gabriele, parroco di Castiglione D’Adda nel Lodigiano, che domenica 28 febbraio annunciava alla sua comunità la benedizione eucaristica dal sagrato in quella prima (così lontana!) domenica senza comunità alla messa. Gesto che anch’io e, penso molti altri preti, ho già ripetuto tre volte nelle domeniche del divieto. In una frazione di secondo davanti a me il sorriso leggero di nonna Pina che, 18 anni fa davanti all’eucarestia che le porgevo come viatico alla sua malattia terminale, mi sussurrava come fosse un segreto di stato “…sai che anche io ho la stessa malattia del Papa… papa Giovanni Paolo II ?”. Spegnendo la Tv gorgheggiavano in me alcune parole come fiotti di acqua da una sorgente nascosta “…anch’io ho la chiesa vuota come Papa Francesco”. In questi giorni di tanti interrogativi sul senso del fare ed essere prete nell’astinenza forzata e di comunità rapita, ieri mi sembrava di essere meno solo, meno strano…meno inutile…anch’io come il Papa…anche il Papa come me…

 

ANDRA’ TUTTO BENE

 

Ieri mi sono concesso un rosario fuori dalle mura di casa. Stanco di recitare il rosario davanti alla tv o camminando nel cortile dell’oratorio, ho sfidato le regole e mi sono incamminato verso via Sant’Alessandro per rientrare a casa da Perola. Mentre sgranavo la corona recitando l’Ave (rosario: preghiera che mi quieta sempre il cuore e ridimensiona emozioni e pensieri), mi divertivo a vedere le finestre degli appartamenti con le luci accese e ad immaginare le famiglie al loro interno. Spesso, ai terrazzi, vedevo appeso un drappo con l’arcobaleno e la scritta Andrà tutto bene. Pensavo subito che in quella casa abitassero dei bambini. Quei colori erano la loro firma. Le case con l’arcobaleno sembravano più colorate, mi davano la sensazioni di una vitalità diversa dalle altre. Mettici pure l’impressione di terrazzini in disordine, così il pensiero di una gioiosa vitalità infantile, diventava sorriso sul mio viso. Chissà quanti giochi con le carte o i pennarelli. Chissà quanti compromessi per il telecomando e i cartoni animati. Chissà quali ricette a disordinare la cucina. Chissà quanti liti finite con gesti di pace e riconciliazione. Pensieri pieni di vita, che rendono le giornate appesantite dalla gioia e dalla fatica di vivere. Sorridevo al pensiero di bambini in pigiama a forma di orsacchiotto, chiedere ancora mezz’ora prima di spegnere la luce. Sorridevo e pensavo, tra un’Ave e l’altra, alla mia vita quotidiana senza carte da gioco né pennarelli, biscotti o cartoni animati. Tanti messaggi per richieste di preghiera a nonni o parenti, e campane da suonare per l’ennesima foglia caduta dal ramo…

 

Almeno loro, i genitori, altri pensieri da rincorrere ogni giorno, pensieri vivi che generano Vita, germogli di vitalità, fiorita nella vivacità di figli da accudire ogni giorno, per ancora tanti giorni da vivere insieme nella stessa casa.

 

Con la Salve Regina, eccomi davanti all’oratorio. Sorrido!

 

Qualcuno, sul cancello, ha appeso un grande striscione con l’arcobaleno e l’augurio Andrà tutto bene!

 

MAURA

Questa mattina, dopo la messa, ho allungato la strada del ritorno a casa per passare dalla signora che mi aiuta nel lavare i miei panni. Un mese fa passava lei da me, ora mi reco io al suo cancello di casa. Due parole, un sorriso e un grazie. Prendo la borsa e sento lei dalla finestra che mi sussurra qualcosa “passi da Maura…ho saputo non sta tanto bene…”. Due cancelli più in là, al suono del campanello mi apre la porta il figlio di Maura e mi fa entrare nella sua camera da letto, è lì sdraiata. “C’è qui il parroco a trovarti” annuncia. Gli occhi socchiusi seguono il suono della mia voce e le labbra rispondono ad intermittenza alle mie preghiere. Mi commuove il suo braccio che da sotto le coperte è come appoggiato al suo corpo. La mano bianca e liscia, e le dita ben curate si perdono nella manica di un pigiama bianco con del pizzo ad orlo. Sembra la mano di una persona giovane. Quanti pasti avrà preparato con quelle mani… Quante carezze con quelle dita… saluto con una benedizione e mi avvio alla porta. Sul divano nel salotto vedo Espedito, il marito di Maura, che da tempo fatica e riconoscere le persone e da mesi parla sempre di meno. Mi fermo e in uno sguardo recito un’Ave a Maria. Esco di casa, raccolgo la mia borsa e provo una sensazione di Vita: in quella casa, in pochi minuti, ho visto vissuto una vita intera! Il secolo passato, orgoglioso e pieno di lavoro e servizio; il presente pieno di cura e affetto; il futuro traboccante di eternità gioiosa. Mi incammino verso casa recitando con un sorriso leggero il rosario…

ANITA E I COLOMBI

 

Dalle fessure della tapparella scruta guardando in alto e poi in basso due colombi che, da carnevale, hanno preso ad abitare la trave del tetto del terrazzo di casa. “Sono giorni che cercano di costruirsi un nido, ma sembrano un po’ imbranati!” mi dice Anita, la sagrista della chiesina dove ogni mattina celebro la messa con lei e Alessandro, unici fedeli. Mi fermo da lei per un caffè e due parole, e ogni mattina mi racconta dei colombi sul terrazzo. “Non apro più la finestra per non spaventarli e farli scappare. Mi tengono compagnia e mi piace guardarli… sono qui da quando non si può più uscire di casa”. Mi piace la tenerezza con cui questa nonnina di più di ottant’anni, si prende cura con lo sguardo di questi colombi. E il piacere che prova nel raccontare di rametti troppo grandi o uova trovate sul balcone cadute dalla trave, mi accorgo che sono una presenza che riempie le ore e la testa di pensieri belli e accende leggeri sorrisi in giornate di parole cupe e tanta solitudine. Penso ai colombi e mi vengono in mente Tina e Gino, sua sorella e suo cognato, morti una dopo l’altro, in pochi giorni, un paio di mesi fa. Voglio pensare che i colombi sono loro due, venuti a far compagnia ad Anita, accendendo pensieri belli e sorrisi leggeri, in questo clima di sofferenza e solitudine. Angeli in comunione con noi, figli di Dio.